Libri

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30 Gennaio 2019 Off   Redazione

Alessandro Chiometti, Frequenti improbabilità, Tempesta Editore, Trevignano Romano 2018.

l volume, edito alla fine dell’anno appena passato, è l’ultimo di Alessandro Chiometti, ternano, compagno da sempre, noto laico e laicista, fotografo e cultore del cinema horror, scrittore. Ha già pubblicato, per Dalia Edizioni, due romanzi che vengono definiti rispettivamente noir e thriller gotico. Torna a farsi leggere con questa raccolta di racconti molto brevi, che incedono senza fatica sopra lo stato di premorte, gli amori da bar, l’amnistia di Togliatti, Terni, il diritto a morire e quello a ribellarsi, i fenomeni paranormali.

Quello di Chiometti è uno sguardo empatico sulle vicende banali dell’umano post-socialista in cerca di un’idea di giustizia. Qui il racconto storico accurato e sentimentale lascia spazio nel giro di poche righe alla comicità più spietata, la critica informata dell’esistente ai dialoghi quasi veristi di personaggi che non sono certo intellettuali. Però educano con garbo, le anime di Chiometti. Educano a dare attenzione alla misura umana delle vicende personali che stanno dietro a ogni grande titolo di giornale. Femminicidio, eutanasia, omicidio, adozioni gay nascondono facce e nomi, sentimenti e storie che popolano Frequenti improbabilità.

“Se alla fine di questa raccolta vi sentite spiazzati” – scrive l’autore in una nota – “non meravigliatevi. Era esattamente il mio intento: fornire punti di vista alternativi a quelli convenzionali”. Ciò che spiazza, oltre ai punti di vista, è la facilità con cui Chiometti riscrive registro, stile, tono e carattere in ogni pagina: una qualità di certo da apprezzare, e dalla quale trarre parte del godimento che non può che accompagnare la lettura del suo ultimo lavoro. Leggendo

Frequenti improbabilità passiamo per luoghi in cui tutto appare estremamente vero, attuale, cucito su un’esperienza delle persone e dei luoghi che lascia poco spazio all’artificio. Segno questo – nonostante le dovute incidentali – di un grande amore tra Chiometti e la sua Terni maltrattata, che crediamo possa essere corrisposto.


Marco Jacoviello, Mosè da Gualdo. Una storia vera nel Rinascimento gualdese, con in appendice Nova Civitas: Gualdo città nuova federiciana dal Medioevo al Rinascimento di Nello Teodori, Accademia dei Romiti, Gualdo Tadino 2018.

Il lavoro di Marco Jacoviello nasce da un documento custodito all’Archivio di Stato di Perugia in un fascicolo che raccoglie gli atti del processo contro Mosè di Abramo da Gualdo, intentato da  Carlo Saraceni, vicario del vescovo di Nocera e svoltosi nel 1510-11. Il documento è annotato dal notaio Prospero Peri di Perugia e consta di venti pagine in folio. Le accuse sono quelle di usura, macellazione impropria di animali, contravvenzione alle regole civili imposte. Dietro il processo ci sono molteplici motivazioni che lo contestualizzano in un ambito più ampio.

In primo luogo migrazione degli ebrei espulsi dalla Castiglia e dal Portogallo e la loro migrazione verso le città italiane. In secondo luogo il pregiudizio contro gli israeliti e la contemporanea necessità della loro presenza come prestatori di denaro ed esercenti attività come la medicina. Infine il percorso che porterà, con l’editto di Paolo IV Carafa del 1555, all’istituzione dei ghetti.

Mosè risiedeva dal 1496 a Gualdo, pur non essendone cittadino e dovendo rinnovare ogni tre anni il suo permesso di soggiorno. La sua presenza è dovuta alla crescita della città e alla sua vicinanza alle Marche e particolarmente all’allora fiorente fiera di Recanati. L’occasione del processo è la vendita proprio a Recanati di una patera data in pegno e mai riscattata al mercante israelita dall’abate della comunità gravitante presso la Chiesa di Santa Maria del Crocicchio, insomma un reato di “simonia” da imputare alla comunità religiosa.

La scelta è quella di scaricare la colpa su un ebreo, facile capro espiatorio. Da ciò la prima sentenza che prevede la restituzione della patera ed una ammenda di 25 ducati d’oro. Mosè ricorre al legato pontificio di Perugia che il 5 novembre 1511 revoca, cancella e annulla la sentenza e lo assolve da ogni capo d’imputazione per vizio di forma e di sostanza. Intorno a questo eventi minuti Jacoviello annoda i fili di una vicenda più articolata e complessa, quella della presenza ebraica nell’Italia pontificia. Si tratta di un lavoro che ricorda il Menocchio de Il formaggio e i vermi di Carlo Ginsburg, una microstoria che assume le valenze paradigmatiche e generali della discriminazione nei confronti dei diversi.